TRENO REGIONALE 3128

Racconto segnalato al Premio letterario internazionale Parole in transito e classificato terzo al concorso Storie in viaggio dell’Associazione Culturale Euterpe sempre nel 2023.

«Il treno regionale 3128 è in partenza al binario sei. Ferma a: Montebelluna, Cornuda, Quero, Feltre». Dario si alzò, prese la valigia e si avvicinò alla banchina. Il viaggio era stato lungo: più di tredici ore in treni accalcati, vagoni odorosi e lunghe attese in stazioni sconosciute, fino ad arrivare all’ultimo cambio. Ancora un’ora e sarebbe ritornato a casa dopo quasi dieci anni. Quando sentì la littorina arrivare, volse lo sguardo verso l'orizzonte e aspettò che rallentasse davanti a lui. A intervalli regolari gli occhi stanchi vedevano scorrere l’azzurro e il grigio del vagone e la sua immagine che a tratti si rifletteva sui finestrini. Un uomo dai capelli scompigliati, le spalle ricurve e chiuse su sé stesse e una camicia sgualcita dal lungo viaggio. Questo era diventato.

Era partito con il primo treno disponibile all’una di notte da Colonia: aveva avvisato il suo titolare che si sarebbe assentato per qualche giorno, giusto il tempo del funerale, e che sarebbe tornato il prima possibile.

Appena le porte si aprirono, entrò e cercò un posto vicino al finestrino, sollevò la valigia leggera sulla cappelliera e si accomodò. Poi il treno partì.

Appoggiò la testa al sedile e guardò fuori un mondo che non ricordava più. Dieci anni prima aveva lasciato il suo paese, diventato troppo piccolo per uno come lui che era desideroso di viaggiare, vedere com'era la vita fuori da quelle piazze tutte uguali. A vent’anni si era deciso. Aveva salutato in fretta i suoi genitori, si era fatto prestare una valigia da sua nonna ed era partito per la Germania.

Colonia aveva palazzi storici merlettati, strade spaziose dove le auto scorrevano fluide e semafori luminosi e sincronizzati come luci di Natale. Ogni cosa sembrava perfetta.

Il treno fischiò a lungo, entrò in una galleria e tutto divenne buio. Sentì lo sferragliare sulle rotaie, il sedile sussultare, l’odore di pelle e plastica, il sudore misto al profumo di donna, di polvere e terra. Sentì le spezie che usava sua madre in cucina, il tabacco da pipa nella busta di suo padre, lo zucchero a velo sulle torte della nonna.

«Ho un amico lì» aveva detto ai suoi la sera prima di partire «Insieme apriremo una gelateria nostra e guadagnerò molti soldi». Non aveva lasciato spazio alle urla di suo padre e alle suppliche di sua madre mentre gli preparava la valigia.

Non ricordava più le lacrime sommesse di sua nonna, il fazzoletto stropicciato che teneva tra le mani, metteva nella tasca del grembiule e poi riprendeva per asciugare la goccia al naso; non ricordava la busta con le quattrocentotrenta mila lire che, prima di partire, gli aveva infilato nel palmo della mano di nascosto ai suoi; non ricordava più che la valigia in pelle, con gli angoli consumati e il dorso graffiato, era quella che aveva suo nonno quando era partito per la Svizzera, non in cerca di fortuna, ma per sopravvivere alla crisi che stava portando via tutto. Ma quando nonno era tornato, aveva ficcato la valigia sopra l'armadio e non l'aveva più usata. Non aveva mai raccontato quel periodo, Dario non sapeva nemmeno se era stato via due o tre anni, come se ci fosse un segreto da mantenere, un dolore troppo grande. Ne parlava solo sua nonna, anni dopo la morte del marito, quando qualcosa le andava storto e imprecava, malediceva il giorno in cui se ne era andato e aveva lasciato la famiglia invece di rimanere a casa a tirare avanti che tanto i soldi che mandava lui non bastavano lo stesso e lì se li beveva tutti al bar invece di darli in Italia e chissà quante donne avrà avuto, senza parlare dei figli. Ma anche qui si faceva una vita grama, anche qui si lavorava come muli e si beveva, e chi voleva si divertiva. Anche qui in paese erano stati concepiti figli quando il marito non c’era e la donna veniva portata davanti al prete in ginocchio tra due candele e doveva giurare che il figlio era del marito. E lei giurava. Come quella volta che la Onorina, con una pancia grossa come un’anguria giurò che il figlio era di suo marito che non tornava a casa da un anno e poi è nato Ivo. Ma non aveva importanza, in quegli anni lì. Era la fame che consumava le persone, non l’amore.

A più di quarant’anni dall’esodo forzato del nonno, Dario aveva scelto: aveva chiuso la porta di casa, era partito e aveva deciso di non tornare più. Colonia era diventata la sua città, avvolgente, vivace, metallica. Dal finestrino, invece, ora vedeva case isolate e chiuse tra giardini dove erano sparse altalene e biciclette, strade strette a due corsie con auto impacciate tra autobus ingombranti e motorini nervosi, quadri post moderni spruzzati su palazzi a ridosso della ferrovia. Tutto gli sembrava piccolo, disordinato e caldo.

A Colonia, con il suo amico non era riuscito ad aprire un’attività in proprio, ma aveva comunque trovato lavoro: d’estate vendeva gelati e d’inverno consegnava pacchi e corrispondenza tra grandi società, correndo tra uffici luminosi e asettici.

Lui stava bene.

A Colonia non c’erano i campi selvatici e i prati verdi, folti e abbandonati che vedeva ora, non gli alberi ombrosi ai bordi delle strade, le recinzioni imperfette di legno attorno alle piccole corti.

La vecchia littorina, una delle poche rimaste per brevi tratte di montagna, sussultava, e il dondolio meccanico e ritmato induceva il sonno, ma qualcosa tratteneva Dario dal chiudere gli occhi. Continuava a guardare fuori.  In lontananza vedeva le montagne ombrose.

Dario stava bene in Germania. Il monolocale dove viveva era proprio in centro città, aveva una piccola cucina, un divano letto sempre disfatto e un tavolo quadrato in legno che gli ricordava i nodi di pino della cassapanca che sua nonna teneva vicino alla stufa a legna.

Due giorni prima, la telefonata di sua madre era arrivata improvvisa. «La nonna è morta. Torna almeno per il suo funerale» gli aveva detto con un velato tono di rimprovero. Glielo doveva. Aveva trascorso con lei quasi tutta l’infanzia mentre i suoi genitori sgobbavano dalla mattina alla sera per vivere al limite della dignità. Lei gli aveva insegnato a riconoscere i funghi buoni, anche quelli che nessuno raccoglieva più perché poco saporiti che, se cucinati assieme agli altri, davano un gusto squisito e nuovo. Gli aveva insegnato a succhiare il nettare da piccoli fiori viola simili alle bocche di leone, ad accendere la stufa con pochi rametti di pino e pigne secche, a passeggiare tra i boschi osservando la natura sempre con stupore, ad abbellire il tavolo della cucina con i fiori semplici che la montagna offriva. Gli aveva dato una tirata di orecchie quando lo aveva visto in piazza con la sigaretta - però non lo aveva mai detto a nessuno - lo rimproverava perché rimaneva troppo tempo sotto la doccia e consumava acqua e legna, ma poi lei si sbrigava a lavarsi per compensare il suo spreco.

Non aveva esitato, doveva tornare. Almeno per lei.

Si sporse fino quasi a toccare il finestrino con la fronte. Le montagne erano più vicine: immobili e maestose di fronte ai suoi occhi, sembrava lo stessero guardando. Le cime bianche trafiggevano il cielo. Il sole stava calando là in mezzo, mentre la penombra avanzava su ogni cosa. Dario vide la propria immagine sul vetro. Aveva dimenticato l’ombra delle nuvole sui prati, il riflesso del sole sulla neve, il colore opaco del bosco d’inverno, brillante con la bella stagione e in autunno vivace come miriadi di biglie colorate.

Quando il treno si fermò alla stazione di Quero, vide una scolaresca al rientro dalla gita scolastica accalcata di fronte alla porta. Diresse lo sguardo verso tre ragazzi a poca distanza dal gruppo e gli tornarono in mente i suoi amici, compagni di giochi e bravate. Ricordò la prima sigaretta; e quando avevano provato a fumare le liane nel boschetto sotto casa e lui si era quasi soffocato a forza di tossire; e le partite a calcio in piazza e quel vecchio che bucava il pallone quando andava a finire nel suo giardino. E ricordò quando avevano creato un pupazzo grande come un uomo e lo avevano buttato sotto un’auto, fingendo che fosse vivo; e quella volta che era andato in ciabatte con la bicicletta senza freni, in discesa fino al paese sotto; e tutte le volte in cui erano andati su per i boschi con la Fiat 127 di uno di loro, in otto, perfino qualcuno aggrappato al tetto. Ricordò quando avevano svuotato la fontana della piazza per riempirci gavettoni e secchi d’acqua; e quando era chierichetto e durante la Messa suonava la campanella finché il prete non gli bloccava il polso, e scuoteva l’incenso fino a fare tossire tutti i fedeli.

E ricordò quando…

Gli occhi si inumidirono.

«Feltre. Prossima fermata Feltre» disse ad alta voce il capotreno camminando lungo il corridoio.

Dario si alzò, osservò il manico usurato della valigia, lo strinse con una mano e con l’altra fece attenzione a non aggiungere graffi, si avvicinò alla porta e aspettò che si aprisse.

Quando scese, volse lo sguardo verso l’orizzonte e sentì il profumo di casa.

«Il treno regionale 3128 è in partenza al binario sei. Ferma a: Montebelluna, Cornuda, Quero, Feltre». Dario si alzò, prese la valigia e si avvicinò alla banchina. Il viaggio era stato lungo: più di tredici ore in treni accalcati, vagoni odorosi e lunghe attese in stazioni sconosciute, fino ad arrivare all’ultimo cambio. Ancora un’ora e sarebbe ritornato a casa dopo quasi dieci anni. Quando sentì la littorina arrivare, volse lo sguardo verso l'orizzonte e aspettò che rallentasse davanti a lui. A intervalli regolari gli occhi stanchi vedevano scorrere l’azzurro e il grigio del vagone e la sua immagine che a tratti si rifletteva sui finestrini. Un uomo dai capelli scompigliati, le spalle ricurve e chiuse su sé stesse e una camicia sgualcita dal lungo viaggio. Questo era diventato.

Era partito con il primo treno disponibile all’una di notte da Colonia: aveva avvisato il suo titolare che si sarebbe assentato per qualche giorno, giusto il tempo del funerale, e che sarebbe tornato il prima possibile.

Appena le porte si aprirono, entrò e cercò un posto vicino al finestrino, sollevò la valigia leggera sulla cappelliera e si accomodò. Poi il treno partì.

Appoggiò la testa al sedile e guardò fuori un mondo che non ricordava più. Dieci anni prima aveva lasciato il suo paese, diventato troppo piccolo per uno come lui che era desideroso di viaggiare, vedere com'era la vita fuori da quelle piazze tutte uguali. A vent’anni si era deciso. Aveva salutato in fretta i suoi genitori, si era fatto prestare una valigia da sua nonna ed era partito per la Germania.

Colonia aveva palazzi storici merlettati, strade spaziose dove le auto scorrevano fluide e semafori luminosi e sincronizzati come luci di Natale. Ogni cosa sembrava perfetta.

Il treno fischiò a lungo, entrò in una galleria e tutto divenne buio. Sentì lo sferragliare sulle rotaie, il sedile sussultare, l’odore di pelle e plastica, il sudore misto al profumo di donna, di polvere e terra. Sentì le spezie che usava sua madre in cucina, il tabacco da pipa nella busta di suo padre, lo zucchero a velo sulle torte della nonna.

«Ho un amico lì» aveva detto ai suoi la sera prima di partire «Insieme apriremo una gelateria nostra e guadagnerò molti soldi». Non aveva lasciato spazio alle urla di suo padre e alle suppliche di sua madre mentre gli preparava la valigia.

Non ricordava più le lacrime sommesse di sua nonna, il fazzoletto stropicciato che teneva tra le mani, metteva nella tasca del grembiule e poi riprendeva per asciugare la goccia al naso; non ricordava la busta con le quattrocentotrenta mila lire che, prima di partire, gli aveva infilato nel palmo della mano di nascosto ai suoi; non ricordava più che la valigia in pelle, con gli angoli consumati e il dorso graffiato, era quella che aveva suo nonno quando era partito per la Svizzera, non in cerca di fortuna, ma per sopravvivere alla crisi che stava portando via tutto. Ma quando nonno era tornato, aveva ficcato la valigia sopra l'armadio e non l'aveva più usata. Non aveva mai raccontato quel periodo, Dario non sapeva nemmeno se era stato via due o tre anni, come se ci fosse un segreto da mantenere, un dolore troppo grande. Ne parlava solo sua nonna, anni dopo la morte del marito, quando qualcosa le andava storto e imprecava, malediceva il giorno in cui se ne era andato e aveva lasciato la famiglia invece di rimanere a casa a tirare avanti che tanto i soldi che mandava lui non bastavano lo stesso e lì se li beveva tutti al bar invece di darli in Italia e chissà quante donne avrà avuto, senza parlare dei figli. Ma anche qui si faceva una vita grama, anche qui si lavorava come muli e si beveva, e chi voleva si divertiva. Anche qui in paese erano stati concepiti figli quando il marito non c’era e la donna veniva portata davanti al prete in ginocchio tra due candele e doveva giurare che il figlio era del marito. E lei giurava. Come quella volta che la Onorina, con una pancia grossa come un’anguria giurò che il figlio era di suo marito che non tornava a casa da un anno e poi è nato Ivo. Ma non aveva importanza, in quegli anni lì. Era la fame che consumava le persone, non l’amore.

A più di quarant’anni dall’esodo forzato del nonno, Dario aveva scelto: aveva chiuso la porta di casa, era partito e aveva deciso di non tornare più. Colonia era diventata la sua città, avvolgente, vivace, metallica. Dal finestrino, invece, ora vedeva case isolate e chiuse tra giardini dove erano sparse altalene e biciclette, strade strette a due corsie con auto impacciate tra autobus ingombranti e motorini nervosi, quadri post moderni spruzzati su palazzi a ridosso della ferrovia. Tutto gli sembrava piccolo, disordinato e caldo.

A Colonia, con il suo amico non era riuscito ad aprire un’attività in proprio, ma aveva comunque trovato lavoro: d’estate vendeva gelati e d’inverno consegnava pacchi e corrispondenza tra grandi società, correndo tra uffici luminosi e asettici.

Lui stava bene.

A Colonia non c’erano i campi selvatici e i prati verdi, folti e abbandonati che vedeva ora, non gli alberi ombrosi ai bordi delle strade, le recinzioni imperfette di legno attorno alle piccole corti.

La vecchia littorina, una delle poche rimaste per brevi tratte di montagna, sussultava, e il dondolio meccanico e ritmato induceva il sonno, ma qualcosa tratteneva Dario dal chiudere gli occhi. Continuava a guardare fuori.  In lontananza vedeva le montagne ombrose.

Dario stava bene in Germania. Il monolocale dove viveva era proprio in centro città, aveva una piccola cucina, un divano letto sempre disfatto e un tavolo quadrato in legno che gli ricordava i nodi di pino della cassapanca che sua nonna teneva vicino alla stufa a legna.

Due giorni prima, la telefonata di sua madre era arrivata improvvisa. «La nonna è morta. Torna almeno per il suo funerale» gli aveva detto con un velato tono di rimprovero. Glielo doveva. Aveva trascorso con lei quasi tutta l’infanzia mentre i suoi genitori sgobbavano dalla mattina alla sera per vivere al limite della dignità. Lei gli aveva insegnato a riconoscere i funghi buoni, anche quelli che nessuno raccoglieva più perché poco saporiti che, se cucinati assieme agli altri, davano un gusto squisito e nuovo. Gli aveva insegnato a succhiare il nettare da piccoli fiori viola simili alle bocche di leone, ad accendere la stufa con pochi rametti di pino e pigne secche, a passeggiare tra i boschi osservando la natura sempre con stupore, ad abbellire il tavolo della cucina con i fiori semplici che la montagna offriva. Gli aveva dato una tirata di orecchie quando lo aveva visto in piazza con la sigaretta - però non lo aveva mai detto a nessuno - lo rimproverava perché rimaneva troppo tempo sotto la doccia e consumava acqua e legna, ma poi lei si sbrigava a lavarsi per compensare il suo spreco.

Non aveva esitato, doveva tornare. Almeno per lei.

Si sporse fino quasi a toccare il finestrino con la fronte. Le montagne erano più vicine: immobili e maestose di fronte ai suoi occhi, sembrava lo stessero guardando. Le cime bianche trafiggevano il cielo. Il sole stava calando là in mezzo, mentre la penombra avanzava su ogni cosa. Dario vide la propria immagine sul vetro. Aveva dimenticato l’ombra delle nuvole sui prati, il riflesso del sole sulla neve, il colore opaco del bosco d’inverno, brillante con la bella stagione e in autunno vivace come miriadi di biglie colorate.

Quando il treno si fermò alla stazione di Quero, vide una scolaresca al rientro dalla gita scolastica accalcata di fronte alla porta. Diresse lo sguardo verso tre ragazzi a poca distanza dal gruppo e gli tornarono in mente i suoi amici, compagni di giochi e bravate. Ricordò la prima sigaretta; e quando avevano provato a fumare le liane nel boschetto sotto casa e lui si era quasi soffocato a forza di tossire; e le partite a calcio in piazza e quel vecchio che bucava il pallone quando andava a finire nel suo giardino. E ricordò quando avevano creato un pupazzo grande come un uomo e lo avevano buttato sotto un’auto, fingendo che fosse vivo; e quella volta che era andato in ciabatte con la bicicletta senza freni, in discesa fino al paese sotto; e tutte le volte in cui erano andati su per i boschi con la Fiat 127 di uno di loro, in otto, perfino qualcuno aggrappato al tetto. Ricordò quando avevano svuotato la fontana della piazza per riempirci gavettoni e secchi d’acqua; e quando era chierichetto e durante la Messa suonava la campanella finché il prete non gli bloccava il polso, e scuoteva l’incenso fino a fare tossire tutti i fedeli.

E ricordò quando…

Gli occhi si inumidirono.

«Feltre. Prossima fermata Feltre» disse ad alta voce il capotreno camminando lungo il corridoio.

Dario si alzò, osservò il manico usurato della valigia, lo strinse con una mano e con l’altra fece attenzione a non aggiungere graffi, si avvicinò alla porta e aspettò che si aprisse.

Quando scese, volse lo sguardo verso l’orizzonte e sentì il profumo di casa.

 

                                                                SULLA STRADA VERSO CASA

È l’alba, Pietro Daddio è appena uscito dal rifugio e l'aria fredda gli punge le guance. Si alza il bavero del giubbotto e, con una leggera scrollata si posiziona bene lo zaino sulle spalle.

Dopo il Vaia, il suo lavoro è aumentato e non ha tregua. Un dito indice invisibile che, con un colpo solo, ha abbattuto un domino gigantesco di vecchi pini e larici sottili, azzerando secoli di storia, ha lasciato distese di stuzzicadenti che lui deve tagliare a pezzi e portare via. Non ci sono molte persone che lo fanno, d'altronde neanche lui lo voleva.

Nato in un paesino appena segnato nelle mappe locali, era fuggito dopo le scuole superiori, iscritto a psicologia, per mantenersi gli studi faceva qualche lavoro in città. Si era specializzato in ipnosi regressiva, lavorava in un piccolo studio e aiutava i suoi pazienti a rievocare ricordi passati per ritrovare se stessi e dare forma alla loro vita. Ma aveva perso la sua, di vita. Era stato risucchiato dalle memorie di sconosciuti dimenticando la propria e aveva deciso di ritornare al suo paesino e riprendere il lavoro di boscaiolo ereditato dal padre. Gli alberi avevano altre storie da raccontare e la montagna lo proteggeva dalla realtà.

La penombra del mattino non ancora nato accarezza i lineamenti delle montagne e crea nuove ombre durante il cammino. I circhi glaciali accolgono nuvole sparse, bianche e dense come anime che vagano tra doline e ghiaioni, libri di calcare grigio rosso ammonitico aspettano da secoli che qualcuno legga e comprenda la loro storia, solo il vento sfoglia le pagine e un giorno alla volta ne consuma il bordo come topi affamati in una biblioteca negletta. Frane di rocce nascondono zaini, armi e corpi mai raccolti, impressi nella memoria come colonie di licheni crostosi sulla roccia interrotte da ciuffi d'erba. Fiori su una tomba.

Con gli scarponi dalla suola dura Pietro Daddio affronta il sentiero che aveva calpestato da piccolo. Ricorda le lunghe passeggiate con suo nonno che a passi lenti e soppesati lo accompagnava tra i sentieri della storia. Nascoste tra rami e tronchi vedeva le gallerie dove giovani combattenti aspettavano rinforzi e comandi da seguire, con la piccola mano aggrappata a quella ruvida del nonno entrava nelle casere senza soffitto, crollato dal peso della neve e con le travi marce, dove uomini e donne avevano trovato rifugio nella notte fuggendo dai tedeschi, dove giovani staffette bussavano in codice per entrare e consegnare messaggi, dove il coraggio vinceva sulla paura.

Un piccolo sasso nel piede gli infastidisce l'andatura e Pietro Daddio si ferma al tornante della mulattiera per sedersi sul muretto. Nella penombra delle rocce, sente qualcosa muoversi. Seduta e rannicchiata a terra gli sembra di vedere una ragazza. Gli occhi sono presenti a ogni minimo scricchiolio delle rocce, guardano tesi e paurosi gli angoli bui dei cespugli cercando un segno che la possa rassicurare. Allontana i capelli dal viso e li porta dietro le orecchie, si asciuga la fronte e allunga la mano lungo la guancia fino a sotto il mento, inspira profondamente trattenendo l’aria dentro di sé per un attimo, poi butta fuori la tensione dal naso senza rumore. È giovane, troppo giovane per trovarsi lassù con uno zaino più grande di lei, un logoro giaccone marrone legato in vita da uno spago e una gonna di lana per fingere di essere in passeggiata. Le mani sono sporche di terra e graffiate dalle rocce su cui si è arrampicata per non rischiare di essere vista, le unghie spezzate e consumate dal lavoro. Dal petto non ancora cresciuto prende una busta, la apre, controlla, sfoglia le carte, le osserva, legge, controlla che tutto sia in ordine, non deve perdere nulla, i suoi compagni la stanno aspettando e contano su di lei.

Pietro Daddio è invisibile vicino a lei, imbambolato come un bambino di fronte a uno spettacolo di magia, osserva la ragazza. Chissà com’è alle feste paesane, se ha mai potuto indossare un vestito a fiori, se ha ballato con un ragazzo, se ha dato il suo primo dolce bacio furtivo, se invece la guerra ha sorpreso la sua giovinezza facendola diventare vecchia in un corpo di bambina.

Dopo qualche minuto, la ragazza si alza in piedi rassicurata dal silenzio, si siede sul muretto vicino a lui e appoggia lo zaino, lo apre e prende un pezzo di pane. È colmo di farina, formaggio e qualche pezzo di carne secca.

Pietro Daddio tra le lacrime la vede vibrare, invidia la sua tenacia. Alla sua stessa età lui era seduto a una innocua scrivania a studiare e beveva aperitivi nei locali mentre lei rischiava la vita alle prime luci dell'alba.

Si alza, lega stretto lo spago del giubbotto, si carica lo zaino sulle spalle e, con passo riposato e rapido, riprende il cammino.

Asciugandosi gli occhi, Pietro Daddio la guarda allontanarsi e svanire tra le rocce.

Il sole sta sorgendo, si allontana da quel muretto che per pochi attimi lo ha riportato nel passato e riprende il cammino.

Al bivio della teleferica, dove è rimasta solo la piastra di cemento, svolta a destra per entrare nel bosco dove la strada è più ripida, il sentiero è ricoperto di aghi di pino e foglie e in alcuni punti diventa una gradinata di rocce. Pietro Daddio è prudente, appoggia deciso e cauto il piede nei punti più sicuri attento a non scivolare. Conosce bene quel sentiero, ma ogni volta nota un nuovo masso, una radice più esposta, un albero più inclinato. L'ultima discesa prima del paese è la più ripida. Il bosco è finito, il sole è alto e la fronte madida di sudore riluccica ai raggi che riscaldano, ora si apre un enorme onda verde delimitata da un filo leggero che può fermare solo gli animali e con cautela lo sposta e attraversa il prato quasi saltellando per scendere fino alle prime case.

Pietro Daddio non ha fretta di arrivare perché in montagna ogni cosa ha il suo tempo, non deve lavorare con smania, ci vuole prudenza nel tagliare un albero, non c'è fretta nel farlo cadere perché deve solo guardarlo e aspettarne il tonfo.

Attraversa il ponte, supera la chiesetta e, alla prima salita, da lontano vede casa sua come fosse la prima volta.

15 Aprile 2023

STANZA 251

- I concorrenti sono pregati di accedere alla stanza 251.

Dalle casse posizionate in ogni angolo dell’edificio, una voce femminile, suadente e decisa, riecheggiò ovunque.

Avevano ancora pochi minuti per affrontare un altro test, superarlo oppure uscire dall'edificio.

In pochi mesi e con grande potenza mediatica, la società Minds Dispenser aveva reclutato centinaia di giovani per partecipare a un progetto sperimentale, alla fine del quale i due vincitori sarebbero rimasti chiusi nella bolla di vetro protetti dai problemi economici, dai mali del mondo e dalle malattie. Una vita serena fino alla morte a patto di essere alla portata di tutti, non solo mediatica, ma anche visiva.

L'edificio era stato costruito al centro della capitale, fulcro di un'intensa attività economica, commerciale e turistica. Al di fuori, giovani studenti si sedevano in pausa pranzo sulle panchine posizionate lungo lo stabile, con un panino in una mano e una lattina nell’altra, a osservare ogni loro movimento. Ogni sera, al rientro dal lavoro, impiegati annoiati potevano passare vicino alle pareti trasparenti e lucide e osservare le vite dei protagonisti, ammirandoli e invidiandone la fortuna.

Le pareti all’interno erano giganteschi specchi verso i quali i concorrenti erano confusi nel guardare se stessi, consapevoli che forse avrebbero incrociato gli occhi di uno sconosciuto oltre quel confine immaginario.

Il provino era stato difficile: domande di letteratura, storia, chimica, fisica, stechiometria e astronomia. Nic era stato uno dei primi a essere selezionato. I motivi per cui voleva chiudersi in una realtà virtuale erano molti, ma la spinta maggiore l'aveva avuta quando aveva letto il biglietto che suo padre aveva lasciato: “Questo mondo non fa per me”. Nic si era sempre sentito molto simile a lui: non solo introverso e riflessivo, ma con un senso di disagio verso la società, verso i nuovi valori e le persone intorno a lui. Il più grande rifugio per entrambi erano sempre stati i libri, fonte di armonia con se stessi e fuga dal mondo. Quando un mese prima era arrivato a casa e aveva visto il corpo di suo padre penzolante dalle travi del soffitto, realizzò che non aveva vie di scampo. Cercò un’evasione più civile, eroica e moderna: un suicidio sociale mediatico senza compromessi morali.

- Ripeto: i concorrenti sono attesi alla stanza 251.

Nic aveva legato con pochi ragazzi che erano già stati espulsi.

Se ne stava seduto con una gamba accavallata sulla poltroncina in pelle bianca al centro del salone principale, di fronte a lui in un altro divano identico e simmetricamente opposto c'erano tre concorrenti che confabulavano, studiavano una strategia, un modo per superare il test tutti insieme: Se metto la penna verso Nord sul banco la risposta è A, verso Est significa B, Sud è C e Ovest D. Parla piano ci sentono. Quando mi sfioro l'orecchio sinistro la risposta è vera, se mi gratto appena è falsa.

Li osservava con gli zaini omologati sulle spalle, maglioni tinta unita in lana pettinata simili a quelli che indossava suo padre e gli occhi pieni di speranza. Non vedevano la verità: ne dovevano rimanere solo due. Tra non molto si sarebbero sbranati a vicenda.

Al piano di sopra, nel corridoio sospeso tra il riflesso del sole, c'era una ragazza che stava facendo fotocopie. Nick le aveva parlato poche volte; rimaneva in disparte, seduta nei divani dei piani superiori con lo zaino appoggiato alle ginocchia, tenuto stretto dalle braccia e quando leggeva vi appoggiava il libro senza staccarsene mai. Appena si alzava in piedi se lo agganciava alle spalle sul davanti come fosse uno scudo tra lei e il mondo fuori.

- Ultimo avviso. Dirigersi alla stanza 251, pena l'eliminazione dal test.

Nic chiuse il libro appoggiato sul bracciolo del divano, lo mise nello zaino identico a quello dei suoi compagni, si passò una mano tra i capelli ricci e si alzò. Infilò uno spallaccio lasciando penzoloni lo zaino lungo il fianco destro e si avviò verso il corridoio.

9. ott, 2022

In piedi di fronte alla finestra, Francesco guardava nel buio di un mattino d’inverno.

19. mag, 2022

Appena entrati in magazzino, Adriano accende i quattro neon che, come brevi lampi, illuminano l'ambiente.

9. feb, 2022

Buongiorno dottore, come sta Maia?

2. ott, 2021

Amo cucinare e, senza falsa modestia, posso affermare che mi riesce abbastanza bene.

31. ago, 2021

Chi di noi non ha mai avuto un diario segreto...

13. ago, 2021

https://www.inchiostronero.it/epilepsia/

25. lug, 2021

Ora l'odore di cenere e fumo copre quello del disinfettante, dell’olio bruciato e del detersivo per i pavimenti con cui ha pulito il pavimento.

6. lug, 2021

Edward Hopper è stato definito il pittore della solitudine americana, il poeta del sentimento solitario (Automat, 1927)

23. giu, 2021

“Rare sono le persone che usano la mente... poche coloro che usano il cuore... e uniche coloro che usano entrambi” Rita Levi-Montalcini

28. mag, 2021

"Bora che sbaia, fuoco di paglia; bora scura, poco dura; bora a tratti, è quella che batte" (proverbio istriano)

21. mag, 2021

"SIAMO ALLA RICERCA DEL VERO" : dalla rivista "Quaerere" un mio racconto.

5. mag, 2021

Avete mai avuto tentazioni omicide?

17. apr, 2021

Ti guardi allo specchio e non vedi tuo padre...

11. apr, 2021

La solitudine è fisica oppure emotiva?

7. apr, 2021

Per ricominciare bisogna toccare il fondo, darsi una spinta e salire in alto

11. set, 2022

Al sole di primavera, Anna sfrecciava con la sua bicicletta impolverata nella speranza di prendere abbronzatura e perdere i chili invernali.

21. feb, 2022

Se la vita di un marine uomo è difficile, quella della donna lo è ancora di più.

7. feb, 2022

https://donnedifettose.com/2022/01/21/manuale-per-lavorare-nellazienda-di-famiglia/?fbclid=IwAR3m_nRk0I9fmLd54tE2syJF8Ryj8Z-2YwoMvzzIi_KKmWfqfPVaBVgqIpA#more-40

14. set, 2021

Ringrazio sempre https://www.facebook.com/racconticon che mi ha spinto a scrivere e pubblicare con il mio vero nome, senza nascondermi.

21. ago, 2021

Un dialogo qualunque

7. ago, 2021

Dal latino angĕre «stringere, soffocare»

11. lug, 2021

Anna si addormentò così, tra i pensieri confusi, con la testa appoggiata sulle braccia incrociate sopra il tavolo di fronte a me.

28. giu, 2021

Il corpo del millepiedi è una sorta di trenino e cammina in modo molto armonico, grazie al fatto che tutti i suoi vagoncini si muovono all'unisono.

5. giu, 2021

A volte le cose accadono quando meno ce lo aspettiamo...

24. mag, 2021

Un racconto pubblicato nel 2019 da chi ha avuto fiducia in me... (https://italian-directory.it/diamante-racconto-lucia-debortoli)

16. mag, 2021

un vero scrittore ha tutto in mente...

24. apr, 2021

Ci siamo mai chiesti cosa possono nascondere le nostre piccole fissazioni?

15. apr, 2021

Cosa pensano i nostri cuccioli di casa di quello che facciamo?

10. apr, 2021

Dicono che stare seduti dietro in moto sia semplice...dicono...