13. ago, 2021

EPILEPSĬA

La cena con i suoi genitori era stata un disastro.
Come sempre.
Suo padre non voleva capire e non avrebbe mai accettato il fatto che non sarebbe diventato un soldato, sia a causa della malattia, sia per la sua poca predisposizione alle armi. Preferiva scriverle, le battaglie, invece di viverle.
Appena scartato dall’esercito e ritornato a casa, l’aria era diventata irrespirabile come se fosse morto, come se avesse scelto lui di essere così.
«Un debole» diceva suo padre «Mai nessuno in famiglia aveva abbandonato le armi, soprattutto a causa di un fisico inadeguato e della salute cagionevole, quasi quanto quella di una ragazza». Ma a Fëdor poco importava, sapeva che doveva tener duro e incassare i rimproveri solo per mezz’ora al giorno: a pranzo e a cena. Per tutto il tempo rimanente si rifugiava nel suo vecchio studio oppure tra le osterie del paese dove aveva il conto aperto.
Lo conoscevano tutti e sapevano cosa fare in quei momenti.
Avrebbe voluto controllarsi, ma non riusciva.
L’ultima frase che sentì quando tirò a sé il portone, fu il grido del padre, tra le lacrime di sua madre: «…e non tornare ubriaco come al solito!»
Fëdor alzò fino alle orecchie il bavero del cappotto e la voce si dileguò tra il vento.
Si ritrovò davanti il muro di pietre che delineava la loro proprietà, costruito pezzo su pezzo dal padre di suo nonno e che da quattro generazioni non mostrava segni di cedimento. Fermò il passo e lo osservò attentamente considerando come pioggia o neve non avessero creato neppure una incrinatura, uno smottamento tra le rocce. Almeno così poteva sembrare.
Irregolari e incastonate come diamanti grezzi in una miniera, dalle crepe del muro, a un tratto vide spuntare piccole lucciole bianche che pulsavano e fremevano per scappare, per uscire da quelle rocce centenarie sotto il suo sguardo incantato, ma nulla poteva liberarle da quel movimento convulso, sotto un’aria gelida sempre più palpitante e tenace. Ingenue, tra la tormenta, svolazzavano e roteavano come pulviscolo senza mai venir allontanate da quel muro, cercando in esso un punto di riferimento, senza spiragli.
Si sentiva la testa scoppiare. Stava avendo un’altra crisi.
Distolse gli occhi dalle sue lucciole e dal muro di famiglia, guardò la breve salita che lo allontanava dalla strada principale.
Ci scivolava con lo slittino da giovane, rideva con i cuginetti quando era bambino, quando non era ancora malato e le giornate scorrevano infinitamente felici senza le interruzioni degli attacchi epilettici durante i quali perdeva coscienza di sé, spaventava i suoi amici, rimaneva solo.
Ora la neve cadeva insistente come ogni inverno, come ogni anno, come da sempre nel suo paese.
Da piccolo amava la neve; al mattino si svegliava felice per affacciarsi alla finestra e scoprire il mondo bianco senza limiti, poi scendeva le scale di corsa con il berretto già ficcato in testa e, rischiando un capitombolo, salutava sua madre con il giaccone e la sciarpa in mano per scappare fuori e tuffarsi nel mare bianco. Dove viveva lui non c’era il mare, non c’era sabbia, i piedi non scivolavano sul terreno caldo, l’unico tuffo che poteva fare era sulla neve, fino a quando le labbra gli diventavano blu. Come al mare.
Negli anni aveva conosciuto il fango: sotto le galosce mentre andava a scuola, tra gli zoccoli e le zampe del cavallo, e tra le ruote bloccate della carrozza.
Il crepitio ovattato dei fiocchi che gli cadevano sulle spalle lo calmò dai suoi pensieri confusi, ma d’improvviso le raffiche di vento lo piegarono in avanti. Aveva il fiato corto, nell’aria gelida le nuvole bianche dell’alito caldo rimanevano sospese sopra la sua testa e roteavano come piccoli fantasmi.
Le sentiva volteggiare convulsamente intorno al cappello, alle orecchie e il vento non riusciva ad allontanarle, come palloncini legati con un filo al suo corpo. Sbattevano tra loro, gli sussurravano nelle orecchie, fischiavano, sbattevano, sussurravano e poi ancora, e ancora, senza tregua.
Lo sentiva, stava per avere un altro attacco.
Gli succedeva soprattutto dopo che aveva litigato con suo padre.
Non riuscì neppure a imprecare perché la salita diventava sempre più ripida e gli mancava il respiro.
Un lungo sibilo riempì l’aria, il vento gli abbassò il bavero del cappotto e lo colpì sulla fronte, gli entrò nelle orecchie; il fischio gli penetrò fin dentro la testa e il suo respiro caldo diventò nebbia sospesa, sempre più densa, fino a ricoprirlo di un’ovatta bianca e soffocante.
Era neve.
Quando morì sua nonna c’era la neve, quando il suo migliore amico partì in guerra c’era la neve, anche quando ebbe il primo attacco, nevicava. La neve era stata la sua compagna di vita, di sventura, di morte.
Sulla strada si alternavano lastre di ghiaccio come specchi verso l’infinito, e pozzanghere di fango dell’abisso più sporco e profondo che un uomo potesse raggiungere.
Ovunque avrebbe appoggiato i piedi, il suo corpo sarebbe caduto: scivolato nel riflesso del cielo oppure impantanato nella realtà putrida della terra bagnata.
La testa gli faceva male.
Le nuvole bianche continuavano a svolazzare intorno a lui, pulsioni celebrali imperturbabili tra il fischio del vento, gli bisbigliavano alle orecchie e nella mente, lo spingevano, lo sfioravano in ogni parte del corpo e si sentiva toccato, sospinto, gettato tra il ghiaccio scivoloso e il fango scuro.
Stava per cadere.
Le lanterne delle case ondeggiavano, si scuotevano, tremavano e la fiammella al loro interno sembrava spegnersi a ogni raffica.
Fëdor sentiva l’avvicinarsi della morte, conosceva bene quella sensazione e ogni volta ne era attratto. Nel buio dell’incapacità di percepire le cose intorno a lui, si sentiva più vivo che mai e assaporava il senso della vita, il reale accanimento che l’uomo ha per la terra, quando invece l’allontanarsi è l’unico modo per sentirla appieno.
Aveva la testa bassa, camminava contro il vento senza alzare lo sguardo da terra, ma le voci intorno a lui si facevano sempre più insistenti, l’aura che lo circondava era un’esplosione di luci, lampi di oro e di fuoco, ma non poteva fermarsi. Se fosse svenuto lì, per terra, tra il ghiaccio, nessuno l’avrebbe trovato e in pochi minuti la neve lo avrebbe ucciso. La stessa neve di sua nonna.
Le lucciole che solo lui vedeva danzavano senza meta tra il vento, roteavano creando un vortice di suoni incastonati perfettamente tra loro come il muro di pietre davanti a casa.
Aveva resistito per quattro generazioni, quel muro, non sarebbe stato lui a distruggerlo.
Una melodia, tra aere e nuvole bianche, dava vita a fuochi fatui inquieti, irregolari.
Si alzò di nuovo il bavero del cappotto e chiuse stretta la sciarpa rossa fin sopra il naso, il vapore della bocca gli entrava in corpo, il soprabito si gonfiò, si mosse e prese vita propria sollevandolo in aria. Si sentiva fluttuare.
Stava iniziando a perdere il suo corpo.
Ora vedeva le luci delle lanterne volare sotto di lui, sotto le scarpe lucide che riflettevano la luna vicina e sentiva la neve cadere più forte. Era tra le nuvole. Salì ancora, la sua mente si sollevò da terra.
Intorno udiva un menologio liturgico creato dalla sua stessa natura, una raccolta musicale, violenta e dissennata, delle sue stesse preghiere, quelle che di notte lo tormentavano senza tregua.
Scosse la testa a scatti da una parte all’altra, applaudì con forza alle lucciole, al bianco della neve, al nulla.
Improvvisamente sentì le mani fredde.
La strada era diventata pianeggiante e lui non aveva più il fiato corto, la mente di Fëdor tornò tra il buio della notte e le nuvole bianche sparirono; le fioche fiammelle rientrarono nei lampioni dondolanti delle case e la strada si fece mansueta.
Davanti a lui non c’era più un muro di neve bianco, in lontananza scorse la sua osteria e accelerò il passo per trovare calore.
L’attacco era passato e tutto era silenzio.
 
 
 
 
 
“In questo frangente, nonostante la tristezza, l’oppressione e il buio dell’anima, il cervello gli si infiammava e tutte le energie vitali esplodevano con estrema forza.
La sensazione di essere vivo, in quei momenti che passavano con la velocità del lampo, si moltiplicava e la mente e il cuore venivano inondati di luce: le ansie i dubbi e le amarezze si dileguavano, anzi, svanivano in una calma suprema, fatta di gioia, di speranza e di armonia".
 
«L’Idiota» di Fëdor Dostoevskij