11. lug, 2021

L'ORA DI CENA (PARTE II)

Anna si addormentò così, tra i pensieri confusi, con la testa appoggiata sulle braccia incrociate sopra il tavolo di fronte a me. L’ho vista crescere, piangere e sorridere (poco).
La conosco da quando era ragazza. Mi ha acquistato in una galleria d’arte molti anni prima, prima di conoscere Paolo, prima di fidanzarsi, di sposarsi, prima, quando era felice.
Dalla parete sopra il tavolo ho assistito alle numerose cene tra amici e colleghi di lavoro durante le quali Paolo faceva notare che c’era poco sale nell’arrosto, quelle con i genitori di lui che commentavano quanto bravo fosse il figlio a mantenere una casa così grande, poi i pranzi domenicali con i testimoni di nozze che imbarazzati osservavano i piccoli lividi sulle braccia di Anna.
Ho visto i primi piatti rotti, le cene andate in fumo, ho udito gli iniziali rimproveri che sono sfociati in urla e in schiaffi. Gli strattoni, le spinte sul lavandino, il pavimento macchiato di olio e pasta. Ho ascoltato i suoi labili pensieri su come spolverare i mobili, i dubbi su quanto sale mettere nell’acqua della pasta per cuocerla come piace a lui, le insicurezze su come stirare la camicia di lino banca che usa per andare via con gli amici.
Ora, quasi per un senso assurdo del destino, io rappresento la sua vita, la solitudine.
Ho in me una donna seduta a un tavolino rotondo di un caffè, davanti a una sedia vuota.
Io sono il giallo: il giallo del cappellino con la tesa all’ingiù come la piega della sua bocca, giallo come il termosifone spento e appeso in un angolo, come la maniglia di ferro della porta e la ringhiera in ottone antico della scala che porta al piano di sopra, come i limoni inutili nel portafrutta dietro di lei.
Io sono il marrone: il marrone pelliccia ai bordi del cappotto verde scuro come i vetri di una bottiglia rotta, come il guanto in pelle che copre una sola mano, il rovere opaco del tavolo e delle sedie, buio come la parete che la circonda.
Io sono il bianco: il marmo bianco del ripiano su cui appoggia le mani, il bianco freddo del pavimento che la sostiene, bianco come le sue gambe elegantemente incrociate sotto il tavolo, pallido come il viso triste e solo come la morte, candido come la tazzina di ceramica sulla quale abbassa gli occhi.
Da molti anni non mi muovo da questa parete e, allo stesso modo, la donna che raffiguro è immobile.
Lei aspetta qualcuno che non arriverà mai, a questo tavolo di caffè, sola, con addosso ancora il cappotto e un guanto che non si è mai tolta, indecisa se rimanere o andare, pensierosa verso quella tazzina fredda cui si aggrappa per trovare la forza.
Ieri ho visto un uomo passare e fermarsi alla vetrina del bar, l’ha guardata a lungo, ha afferrato la maniglia gialla della porta, l’ha tirata appena verso di sé e poi si è fermato. Ha aperto la mano e la porta si è richiusa.
Ogni mattina ce l’ho dentro, vivo la sua solitudine, sento l’attesa che logora la mia tela e che non avrà mai fine.