9. feb, 2022

Viaggio di sola andata

«Buongiorno dottore, come sta Maia?»
«La signora ha passato una notte difficile. Le abbiamo dato un sedativo. Deve riposare».
«Non si preoccupi, mi fermo poco».
Adrian entrò nella stanza e tra la penombra dei letti faticò a riconoscere Maia. Vedeva corpi stesi, nascosti da coperte sbiadite, cuscini e lenzuola un tempo bianchi, ora grigi di tristezza, donne magre, sottili, con i capelli uguali, bionde, solamente bionde.
Quasi sfiorando il pavimento con le scarpe della festa, si accostò ai primi letti per riconoscere la donna che cercava, scrutò i loro occhi chiusi e il profilo del volto per ritrovare il suo. Riconobbe a malapena Maia con i capelli corti.
Si tolse la giacca, la appese allo schienale della sedia vicina e rimase in piedi a fissarla. La coperta di cotone la copriva come una sindone, il corpo era trasparente e la pelle in viso arricciata come carta crespa. Le braccia sottili lungo i fianchi appoggiate sopra il lenzuolo erano immobili.
Si sedette. Si allentò la cravatta e aprì il primo bottone della camicia.
Era sempre troppo caldo negli ospedali e l'odore di disinfettante gli dava la nausea, per questo aveva portato con sé delle caramelle alla menta. Dalla tasca dei pantaloni ne prese una e la scartò.
Maia si mosse verso di lui e aprì le labbra in una fessura: «Adrian…»
«Sono qui, non affaticarti…».
«Adrian…sei qui…»
Si mise in bocca la caramella. L’atmosfera era irrespirabile e pensò che forse avrebbe dovuto comperarle ancora più forti. Voleva aprire la finestra, far passare un po’ di aria e luce, ma le tende erano chiuse e gli infissi bloccati con dei chiavistelli.
Si aprì anche il secondo bottone della camicia, allentò il colletto bianco e si arrotolò le maniche fin sui gomiti.
«Ricordi?
La sera prima ti avevo preso lo zainetto.
Le mani mi tremavano.
Respiravo a tratti.
Non riuscivo a inalare abbastanza aria, la gola era stretta come una cannuccia piegata.
Mi avevano detto di portare poche cose per sembrare una turista e non occupare spazio durante il viaggio.
Avevo preparato due panini, un vecchio maglione di tuo padre e un paio di calzini».
«Riposa adesso… Il dottore ha detto che devi riposare. Io ritornerò alle sette, dopo il lavoro».
Adrian si rizzò in piedi facendo stridere la sedia sul pavimento, prese la giacca urtando il comodino e uscì dalla stanza senza voltarsi.
Maia rimase immobile, intontita tra il presente e il passato, immersa nei ricordi felici, annegata in quelli tristi: l’abbandono per rincorrere un sogno, la povertà, l’umiliazione, il ritorno, la sconfitta.
Le sue labbra si mossero come quelle di una marionetta fuori tempo con la voce: «Avevo preparato due panini, un vecchio maglione di tuo padre e un paio di calzini» ripeté «Uscii da casa come una ladra, lasciai due lettere: una a te e una alla nonna. Mi incamminai nel buio allontanandomi da tutto ciò che conoscevo per dirigermi verso la luce flebile di un lampione giallo».
L’aria malsana di medicinali pesava sui corpi drogati di dolore e morte.
Maia si addormentò e tutto fu silenzio.
 
«Buonasera dottore, come sta Maia?»
«Ha trascorso una giornata serena. Ora è sveglia».
«Bene, grazie dottore».
La stanza era buia, le lampade al neon imbiancavano i volti come bambole di cera, le lenzuola riflettevano un giallo opaco e le coperte coprivano gambe irrequiete e impazienti.
Adrian aveva la giacca sul braccio e i primi due bottoni della camicia aperti. Prese la sedia e si avvicinò a Maia.
«Profumi di menta» gli disse sorridendo «ti dà ancora fastidio l’odore dell’ospedale?»
 «Un po’».
Il neon sopra il letto sussultò appena e fece vibrare i loro occhi come lucciole spaesate.
«Ti ricordi la mia lettera? Adrian, te la ricordi?»
«No» mentì.
«Ho cercato di spiegarti perché me ne andavo. Come potevo farti capire che sarei stata lontana da casa per un tempo che per te sarebbe stato infinito. Avevi solo otto anni…Ti ricordi Adrian? Ti dissi che sarei tornata presto, sapendo di mentire, ti rassicurai con parole di affetto che non avrebbero placato il tuo stupore. L’hai letta? Ho immaginato molte volte i tuoi occhi color cenere fissare ogni parola e leggerla lentamente a voce alta».
Il neon vibrò ancora.
Adrian abbassò lo sguardo.
Le sue mani strinsero la giacca blu come fosse un bastone cui aggrapparsi.
La stanza era sempre più buia, il sole era calato tra le montagne e le ombre si allungavano fino a toccare il soffitto per poi essere fagocitate dal nero intorno.
«No. Non la ricordo».
«Alla nonna avevo scritto solo due righe: sapevi che l'avrei fatto. Abbi cura di Adrian».
«La nonna mi ha voluto bene».
«Sapevo che ti avrebbe cresciuto come un figlio, io dovevo andare, saremmo morti nella miseria».
Il silenzio di Adrian le provocò una fitta di dolore che conosceva da anni, ma continuò: «Ricordo quella notte come ieri. Quando arrivai al parcheggio del pulmino, una fila silenziosa di donne era di fronte a un piccolo banco di scuola dove un uomo aspettava paziente e segnava i nostri nomi, raccoglieva quanto dovuto e ci indicava un angolo dove aspettare. Faceva freddo, ero intirizzita dalla paura e stringevo al petto il tuo zainetto. Tenevo gli occhi bassi. Le scarpe… guardai le scarpe delle altre donne… i volti non li vidi, ma le scarpe sì… chi indossava scarponcini da uomo, mocassini in pelle o ballerine in vernice come fosse davvero un viaggio di piacere».
«Potevi tornare indietro» la interruppe Adrian tenendo la testa bassa, stringendo sempre più la giacca fino a stropicciarla irrimediabilmente.
Aveva caldo, il neon traballava sempre di più e aveva finito le caramelle alla menta, stava per svenire.
«A notte fonda salimmo su un furgoncino nero senza finestrini, i sedili erano un misto tra avanzi di auto e poltroncine da salotto, legati tra loro con corde irrigidite dal tempo e fil di ferro arrugginito. Sul fondo del mezzo c'era una tavola che permetteva un’unica seduta in cui ci potevano stare quattro persone, ma ne vidi sei, strette, con le spalle ricurve in avanti, le gambe incrociate e le borse sotto il legno.
Io trovai posto in un sedile in pelle marrone che puzzava di muffa e fumo.
Credevo di essere all’inferno, ma non sapevo che era solo la strada per arrivarci.
Credevo che avrei trovato il paradiso, che poi tu mi avresti raggiunta, che saremmo vissuti insieme in Italia, felici, noi due, per sempre…»
«Non sforzarti di parlare, Maia, ora riposa».
«Non mi hai più chiamata “mamma”, sempre e solo Maia…
Il mio nome.
Odio il mio nome.
Per molti anni è stato pronunciato con disprezzo da persone sconosciute, da chi riceveva tutte le mie attenzioni e mi sfruttava, da chi non sapeva nulla di me. E tu, mio figlio, mi chiamavi per nome come loro».
«Non ci riuscivo».
«Lo capivo, ma non potevo tornare indietro».
Maia affondò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi: «Quella sera, dopo i dovuti innesti di corpi e sacche, ascoltammo le indicazioni del nostro traghettatore: se ci fermiamo non dovete parlare, se dovete andare in bagno non dovete parlare, se avete fame o sete non dovete parlare, decido io come quando e dove fermarmi per una pausa. Il pulmino fece un rumore di ferraglia e partì. In mezz'ora di strada l'aria era diventata irrespirabile: odore di fritto e cipolla misto a sudore, scarpe sudicie e terra bagnata. Mi chiesi quanto potessero odorare delle donne vive inscatolate come animali d'allevamento. Sentivo la gola che si serrava lentamente, le narici cercavano aria d'asfalto tra le fessure della lamiera e avrei voluto tornare indietro, ma non c'era più alcun indietro per me. Mi guardai intorno e vidi donne smarrite come me. Avevano negli occhi il dolore della perdita e nella bocca il sorriso della speranza, e per un attimo non mi sentii più sola. Ma fu l'ultima volta».
Maia chiuse gli occhi e smise di parlare, sembrava essersi addormentata. Adrian sollevò la testa e la guardò, aveva gli occhi rossi dal pianto, il neon non vibrava più, la luce le illuminava il volto. Sembrava serena.  Allentò la presa della giacca, allungò la mano sulla sua e la avvolse completamente.
Rimase così tutta la notte, a fissarla, a ricordarla com’era da giovane, quando se ne andò, quando lui studiava, si diplomava e lei tornava sempre più magra per le feste di Natale, lui si iscriveva all’università e lei gli telefonava con la voce stanca, trovava lavoro in uno studio, si fidanzava, comperava casa e lei si consumava.
Il sole del mattino illuminò i loro volti.
Entrò un’infermiera che aprì il chiavistello alla finestra e lasciò entrare aria fresca e profumata, le caramelle alla menta erano finite, ma ora non servivano più.
Maia aprì gli occhi e Adrian le sorrise: «Mamma, sono qui».