All’età di sei anni mi hanno trovato un difetto alla vista: astigmatismo. Non chiedetemi cosa significa, perché ancora adesso fatico a capirlo. La frase che mi sono sentita dire per molti anni è “l’asse spostata dell’occhio”. Non ho mai voluto indagare perché avevo l’incubo di diventare strabica e che questo famoso “asse”, che avevo nell’occhio, si spostasse del tutto, fino a farmi sparire il bulbo oculare (sarà per questo motivo che ho sempre spiegato TUTTO ai miei figli: per evitargli incubi).

La realtà è comunque peggio della fantasia di una bambina.

Alle scuole elementari eravamo solo due ragazze con gli occhiali: io e Sara, la più carina, simpatica e spigliata della scuola. Non mi soffermo su chi prendessero in giro.

Anche alle medie eravamo in due, ma, questa volta per mia fortuna, l’aggravante della mia compagna consisteva nel vivere nell’azienda agricola di famiglia e l’odore che emanava era un attacco più fantasioso e maligno.

I primi occhiali avevano una montatura in ferro color oro, simili a quelli che indossava un mio vecchio zio. Pensavo fossero di moda.

Poi sono passata alle montature in plastica. Rosa. Sfumata. Grande. Dato l’importo, i miei genitori l’avevano scelta così grande per ammortizzare la spesa. Ancor oggi a casa loro vige la frase: “una cosa così piccola, non può costare così tanto” sia che si parli di cellulare o di collane. Per loro il regalo migliore deve essere GRANDE così da saperne valutare il valore (se è pesante anche meglio).

All’età di sedici anni, dopo un’adolescenza nell’ombra, ho deciso di scegliere io stessa la montatura, ma siccome senza occhiali non vedevo un cazzo, con le lenti in vetro, davanti allo specchio dell’ottico, ho scelto una montatura ancora più grande e ancora rosa!

Gli unici felici erano i miei genitori che ancora una volta concretizzavano la spesa.

Negli anni ottanta eravamo in pochi con gli occhiali. Le ragazze, nel pieno dello sviluppo, cominciavano a truccarsi ed esplodere in tutta la loro bellezza.

Io ho dovuto aspettare fino ai diciotto quando ero ponta per mettere le lenti a contatto che non sono quelle morbide, usa e getta, settimanali, mensili, personalizzate, a colori e soprattutto economiche di adesso.

Le prime lenti per gli astigmatici si definivano semi-rigide che, in pratica, erano un foglio sottile di vetro sensibile a ogni più piccolo pulviscolo stellare e costavano come tre paia di occhiali. Quindi, secondo la teoria dell’ammortizzare la spesa e del piccolo-costa-poco dei miei genitori, dovevano durare almeno dieci anni.

Risultato: riuscivo a indossarle solo nelle grandi occasioni e per poco tempo, pena il rischio di ottenere occhi in lacrime come una cuoca che taglia la cipolla e neri di trucco colato come quelli un panda.

Quando, dopo anni, la pupilla aveva fatto il callo (letteralmente) e riuscivo a sopportare senza piangere per quattro ore, anche in presenza di sabbia, non ci vedevo più perché la gradazione era variata ed era giunto il momento di cambiarle.

Una battaglia persa.

Per fortuna, la moda stava dando alla luce montature più carine e attraenti (a quanto pare non ero l’unica accecata della popolazione e il mercato si doveva adeguare). Inoltre, più nascevano nuovi occhiali, più si abbassavano i prezzi.

A ventidue anni ho iniziato a sbizzarrirmi, a prendere il mio posto nella vita per tutte le volte che mi sono sentita brutta, occhialuta e presa in giro.

Se da una parte posso ringraziare chi mi ha fatto sentire così, perché ha contribuito a formarmi il carattere, dall’altro ho cercato una sottile vendetta (così sotile che non se n'è accorto nessuno, ma è stata una mia soddisfazione personale).

Occhiali di ogni genere e colore, forme impossibili e montature stranissime hanno adornato il mio viso: arancioni a forma di aquilone, trasparenti a forma di pesce, neri con basette a strass applicate alle stanghette, dorati con lenti sospese sui naselli, rettangolari blu, rossi a righe, bianchi come Lina Wertmüller, rotondi come quelli di Harry Potter, marroni e grandi come quelli di Arisa.

Li ho conservati tutti.

Come le canzoni dei tempi passati, ognuno di loro mi ricorda un periodo della vita perché quando li comperavo volevo essere diversa da come mi sentivo e desideravo cambiare.

Alcuni sono nascosti in un cassetto, altri ancora appesi in bella vista da guardare e ricordare ogni giorno.

Adesso uso quasi sempre la stessa montatura. Non ho più bisogno di cambiarla. Mi piaccio così.